Il furfante Fighino fa ritorno a Cartoceto per rivelarci come la sua storia sia più antica di quanto inizialmente pensato.
Nel Numero 0 dei “Quaderni di Cartoceto” avevo riportato il curioso aneddoto – scoperto in alcune pubblicazioni del XIX e XVII secolo – riguardante un ciurmatore di nome Fighino, lestofante vagabondo che seppe approfittarsi con l'inganno della generosità di una povera famiglia di Cartoceto, spacciandosi per l'umile servitore di un loro figlioletto che da tempo aveva lasciato il paese senza dare più notizie. In quell'articolo avevo ipotizzato che la vicenda narrata risalisse al tardo Cinquecento, essendo essa riportato in un libello stampato agli inizi del XVII secolo.
Tuttavia, una recente nuova indagine bibliografica ha gettato nuova luce su questo singolare evento di cronaca popolare, che s'è rivelato essere d'origine assai più remota: la prima narrazione della vicenda risale infatti al tardo Quattrocento.
Facciamone un breve riepilogo.
Il caso è stato inizialmente individuato nel “Trattato dei bianti ovver pitocchi, e vagabondi, col modo d'imparare la lingua furbesca”, un libro stampato nel 1828 “co' Caratteri di F. Didot”.
Una prima indagine rivelò come questo libro fosse in realtà una delle tante ristampe d'un libello pubblicato per la prima volta a Viterbo nel 1621, ossia “Il vagabondo overo sferza de' bianti, e vagabondi”, opera d'un certo “Rafaele Frianoro”; quello del Frianoro è uno pseudonimo, dietro il quale si cela in realtà tale Rafaele de Nobili che, fattosi frate domenicano a Viterbo ad inizio Seicento, assunse prima il nome di Giacinto, per poi riadoperare il proprio nome di battesimo (in funzione letteraria) come “Rafaele Frianoro”.
Il suo stampato del 1621 rappresentò il recupero – con adattamento in lingua volgare – d'un testo latino risalente al tardo Quattrocento, lo Speculum cerretanorum (o "De cerretanorum origine eorumque fallaciis") dell'urbinate Teseo Pini, vicario generale dell'allora arcivescovo di Firenze, Rinaldo Orsini. Il de Nobili tradusse il testo del Pini dal latino al volgare, realizzandone un vero e proprio adattamento (potremmo anche dire, un plagio) stilistico che fornì all'opera una carica quasi teatrale, da commedia, che ne favorì la grande popolarità e diffusione, venendo infatti ristampato ed ulteriormente interpolato da successivi autori nei due secoli seguenti.
Fighino? |
Tuttavia, una recente nuova indagine bibliografica ha gettato nuova luce su questo singolare evento di cronaca popolare, che s'è rivelato essere d'origine assai più remota: la prima narrazione della vicenda risale infatti al tardo Quattrocento.
Facciamone un breve riepilogo.
Il caso è stato inizialmente individuato nel “Trattato dei bianti ovver pitocchi, e vagabondi, col modo d'imparare la lingua furbesca”, un libro stampato nel 1828 “co' Caratteri di F. Didot”.
Una prima indagine rivelò come questo libro fosse in realtà una delle tante ristampe d'un libello pubblicato per la prima volta a Viterbo nel 1621, ossia “Il vagabondo overo sferza de' bianti, e vagabondi”, opera d'un certo “Rafaele Frianoro”; quello del Frianoro è uno pseudonimo, dietro il quale si cela in realtà tale Rafaele de Nobili che, fattosi frate domenicano a Viterbo ad inizio Seicento, assunse prima il nome di Giacinto, per poi riadoperare il proprio nome di battesimo (in funzione letteraria) come “Rafaele Frianoro”.
Il suo stampato del 1621 rappresentò il recupero – con adattamento in lingua volgare – d'un testo latino risalente al tardo Quattrocento, lo Speculum cerretanorum (o "De cerretanorum origine eorumque fallaciis") dell'urbinate Teseo Pini, vicario generale dell'allora arcivescovo di Firenze, Rinaldo Orsini. Il de Nobili tradusse il testo del Pini dal latino al volgare, realizzandone un vero e proprio adattamento (potremmo anche dire, un plagio) stilistico che fornì all'opera una carica quasi teatrale, da commedia, che ne favorì la grande popolarità e diffusione, venendo infatti ristampato ed ulteriormente interpolato da successivi autori nei due secoli seguenti.
Teseo Pini (“Theseus Pinus Urbinas”) scrisse lo Speculum cerretanorum tra il 1484 ed il 1486 giacché, come riporta egli stesso all'inizio dell'opera, si trovò a dimorare non lontano dai “cerretani”, potendo così “venire a capo di non poche delle loro fallacie, trappole ed imbrogli”.
Il trattato originale di Teseo Pini fu riscoperto inizialmente da Pietro Pirri negli anni '30 del secolo scorso, venendo poi pubblicato in maniera completa da Piero Camporesi negli anni '70 secondo la lezione di due manoscritti, uno urbinate del primo Cinquecento ed un altro vaticano datato 1589.
L'opera del Pini trattava delle malefatte compiute dai suddetti cerretani, riferito agli abitanti del castello umbro di Cerreto, in Valnerina. Costoro, in seguito alla celebre “peste nera” del 1348, erano stati autorizzati (assieme ad altri castelli limitrofi) a chiedere l'elemosina per poter ricostruire gli ospedaletti andati in rovina, ottenendo una sorta di appalto. Negli Statuti di Cerreto del 1380 si fa esplicita menzione di concessione chiamate baye o baglie, che consentivano a coloro che le ottenevano (detti quindi bayuli o baglivi) di questuare a favore di certi ospedaletti dell'Ordine del Beato Antonio.
Inutile dire che, nonostante le iniziali buone intenzioni, le questue dei cerretani degenerarono presto in attività di raggiro e malaffare, allo scopo di intascarsi non solo i proventi dell'elemosina, ma anche mettendosi a fare “i guaritori da fiera e ciurmerie affini”.
Possiamo considerare questi ciarlatani, questi cerretani, come i progenitori dei bidonisti di oggi, coloro che si macchiano di reati quali circonvenzione d'incapace, truffa, estorsione, esercizio abusivo delle professioni, abuso della credulità popolare, pubblicità ingannevole, ecc. Potremmo anzi dire che sia proprio questo il vero “mestiere più antico del mondo”. Solo che, a quel tempo, in assenza di internet, di televisione, di reti e trasmittenti locali, i lestofanti dovevano ridursi spesso al semplice “porta a porta”, veri e propri procacciatori d'affari (illeciti) a cavallo tra Medioevo ed Età Moderna.
Sull'origine di questo fenomeno, ecco come scrisse Flavio Biondo di Forlì nell'opera Italia illustrata, compilata tra il 1448 ed il 1458: “...gli abitanti di Cerreto, in quel di Spoleto, appunto i cerretani, sono dediti ad un disonesto guadagno. Costoro vanno mendicando quasi per tutta l'Europa e ingannano gli uomini: alcuni fingono la propria indigenza, altri dicono di questuare in nome di qualche pia istituzione; e così accumulano ingenti ricchezze. Stando così le cose, il discredito su siffatta gente è giunto a tal punto che, come da Gnato è derivata la voce gnatone, cioè adulatore, così tutti i questianti importuni e sfrontati, per tutta Italia son chiamati cerretani”.
Contro questi cerretani, o ciarlatani, o cialtroni che dir si voglia, papa Innocenzo VIII indisse quasi una crociata, ordinando nel 1487 a fra' Bernardino da Feltre, Minore Osservante, di tenere una missione contro i cerretani “pessimum et fraudolentum hominum genus”.
Ritornando al testo di Teseo Pini, è qui che troviamo la prima narrazione di questo misfatto legato a Cartoceto e al raggiro qui messo in atto dallo sbricco Fighino (o “Fraghino”). Anche se è possibile che la storia narrata abbia subito delle interpolazioni, possiamo comunque congetturare che Fighino passò a Cartoceto tra il 1454 ed il 1480 circa, essendo citato un “Ferdinando Rege” che altri non potrebbe essere che Ferdinando I, Re di Napoli dal 1458 al 1494. Non sapremo mai cosa ne fu di questo lestofante (sempre che sia veramente esistito), ma certo possiamo oggi inserire Fighino tra i singolari personaggi che, nel bene o nel male, hanno saputo legare il proprio nome alla storia di Cartoceto.
Ecco dunque il testo originale in latino, tratto dallo Speculum cerretanorum di Teseo Pini, a testimonianza del malandrino affare:
“Cocchini, dicti sunt a quaetiendo, qui per hiemem nudi vadunt, quasi sua quatientes membra, stridentes dentibus, ut maiorem vim frigoris se concepisse ostendant. Ii prae se ferunt nihil praeter egestatem nuditatemque habere, unde Cerrus quidam de Fraghino villa Cerreti quasi nudus non longe a Fano, sciens stipulatorem quendam Petrum Antonium inutilem filium ante triennium domo egisse, nec de hominis salute postmodum verba literrasque percepisse, adiit hominem, filium salvum dixit, et a Ferdinando Rege, obeius strenuam virtutem, cohortis et aureae militiae dignitate donatum refert quod strenue et in magno periculo pugnasset et hostes vi vicisset ferox, seseque militis tanti servum dicit. A stipulatore domum ductus, sororibus matrive ingenti praeda et spolio divitem clamat, seque clarissimi militis servum, voto missum ad Beatum Antonium, et in itinere spoliatum esse, et quod ita missus domini votum atque iussum persoluturus esset. Gaudent credulae mulierculae, benigneque suscipiunt, et optimam sibi cenam parant. Vespere stipulatoris generi aliique affines homines advenam adeunt, quae vera fuisse obtabant, interrogant. Callidus Cerrus, quae aiebat vera fuisse simulat, et falsa cogitata proloquitur; mulieres interulam, stipulator diploidem, gener unus lucernam, alter vero caligas, calceos atque birretum proferunt, pallium vero ab avo materno, quominus senio confectus indigebat, obtinuit homo nudus, et sic per diem noctemque benigne receptus persoluto voto statim sese e vestigio illac rediturum pollicetur. Abiens viros ac feminas decipiens, paucis diebus elapsis post hominis discessum, Petrus Antonius stipulatoris filius, de quo tanta per cocchinum praedicata fuerant, Carticetum rediit nuntians patri se inopem, nudum, nihil secum detulisse praeter egestatem: quo comperto doluit stipulatori tot vestes in cocchinum contulisse, quae egeni filio oportune suffecissent. Corsus rei conscius Reverendissimae Dominationi tuae haec narrabit melius”.
Per concludere ho scelto di riproporre la versione in volgare così come fu riadattata nel 1621 secolo dal de Nobili/Frianoro:
“Capitolo XVIII.
De' Cocchini.
Questi dallo scuoter le memba al tempo dell'inverno, dallo strider de' denti, per mostrar d'aver concepito gran freddo dentro l'ossa, e dal suono che fanno con la bocca, son detti Cocchini. Quasi anco, a guisa di pezzenti, dicono amare sommamente la nudità e la penuria per amor di Dio, essendo ciò falso, perché amano più il denaro e la robba.
Certo Fighino comparve in un luogo non troppo discosto da Fano, detto Carticeto, ove sapendo che un certo Pietro Antonio, figliuolo d'un notajo, era uscito di casa sua circa tre anni, ed in detto tempo non si era saputo nuova di lui, trovò il padre, dandoli nuova della salute del figliuolo; del quale diceva, che per la sua fortezza e valor mostrato in un pericoloso combattimento, in cui vinse gl'inimici, era stato fatto dal re Ferdinando capitano e cavalier del Speron d'oro, e che egli era suo servitore.
Sentendo il padre questa buona nuova, lo introdusse in casa, ove salutato la madre e le sorelle diede anche a loro buone nuove del figliuolo; aggiungendo, che aveva in guerra raccolto molte spoglie e fatto gran preda, onde era divenuto ricco. E che avendo fatto voto, mentre combatteva di visitare, o fer visitare la chiesa di s. Antonio, aveva mandato esso Cocchino suo fedelissimo servitore a soddisfarlo, portando un dono alla chiesa d'esso Santo in suo nome; con portar anche lettere al padre ed a' parenti delle sue felicità: ma che per la strada era stato dagli assassini spogliato d'ogni cosa, ed appena avea salvato la vita; nondimeno così come si trovava, voleva andare a soddisfarlo.
Al sentir delle buone nuove dette dal furbo, si rallegrarono tutti, e ringraziando Iddio della buona fortuna del figliuolo, preparorno al finto servitore Cocchino una buona cena. Convennero fra tanto i generi, cognati, zii ed altri parenti di Pietro Antonio e del padre, per intendere le buone nuove, quali furono dette e confermate dal Cocchino; aggiungendo sempre cose da lui prima ben pensate e meditate, acciò tanto meglio la carota si radicasse. Le donne, compassionevoli di vedere il servitore del lor figliulo così male in arnese per amor suo, li diedero alcune camicie, il padre gli donò un vestito, e gli altri portoron chi calzoni, chi calzette, chi scarpe, chi berretta; il padre della madre di Pietro Antonio li diede un ferraiolo, del quale per essere egli vecchissimo ne aveva necessità, non che bisogno.
E così ben vestito e ben trattato per un giorno e per una notte, in premio delle dette bugie, si partì, promettendo soddisfatto il voto ripassar di lì per le lettere: ma partendo di lì, il vento lo trasportò tanto discosto, che non fu più visto.
Non passarno troppi giorni, che Pietro Antonio tanto predicato dal Cocchino tornò a Carticeto, povero, ignudo, mezzo infermo, consumato dalle fatiche de' viaggi, e tutto distratto per la fame, dicendo che seco non aveva portato altro che miserie e povertà. Or pensa come restò il povero padre addolorato con tutti di casa, vedendo esser stati burlati da quel furbacchiotto del Cocchino, a cui aveva con li parenti dato tanti vestimenti, che al povero figliuolo sariano stati opportuni in quell'istante.
Di queste simili burle se ne fanno ogni dì, massime con lettere false portate a gente ignorante, che non sapendo più che tanto, danno della robba senza sapere a chi, né perché: però aprite gli occhi, altrimenti li Cocchini ve l'accoccheranno”.
Andrea Contenti
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